Pillole di diritto – contributo a cura dell’Avv. Anna Chindamo
Il nostro ordinamento giuridico tutela il diritto di proprietà attraverso la disciplina delle c.d. “azioni petitorie”.
L’art 948 c.c. regolamenta l’azione di rivendica (l’antica rei vindicatio) che è imprescrittibile e può essere proposta contro chiunque possegga o detenga la cosa senza alcun titolo, al fine di ottenere una sentenza che accerti la proprietà del bene e condanni chi lo possiede alla restituzione.
Colui che agisce in rivendica deve provare con ogni mezzo sia di essere proprietario che di aver acquistato la proprietà a titolo originario, non potendosi limitare a contestare la posizione del convenuto. Nel caso in cui egli abbia acquistato il bene a titolo derivativo, dovrà provare la legittimità di tutti gli acquisti a titolo derivativo, fino a giungere ad un acquisto a titolo originario (c.d. probatio diabolica). Questa prova può essere attenuata nel caso in cui chi rivendica la proprietà ne dimostri l’usucapione attraverso il possesso ininterrotto, unitamente a quello dei danti causa, per 20 anni o per 10 anni, se si tratta di possesso di buona fede.
Diverso fondamento ha “l’actio negatoria servitutis”, prevista dal successivo art.959 c.c., la cui finalità è quella di tutelare la pienezza del diritto di proprietà, attribuendo al proprietario il diritto di agire per far dichiarare l’inesistenza di diritti pretesi da terzi sulla cosa o di far cessare le molestie e turbative che manifestino l’esistenza di tali diritti. Essa non può essere quindi esercitata in presenza di turbative o molestie che non si sostanzino in una pretesa di diritto sul bene. Nella “negatoria servitutis” la titolarità della cosa costituisce il requisito di legittimazione attiva e non è mai oggetto della controversia. Pertanto, l’attore non ha l’onere di fornire prova compiuta della proprietà (che quindi può essere provata con ogni mezzo anche in via presuntiva) posto che fine ultimo dell’azione è ottenere la cessazione dell’attività lesiva.
Da ultimo, gli artt. 950 e 951 c.c. disciplinano le “azioni di confine” che hanno minore importanza e sono poste a tutela della proprietà fondiaria: “l’actio finium regundorum” o regolamento di confine e “l’azione di apposizione di termini”.
La prima presuppone l’incertezza del confine tra due fondi e tende quindi ad identificarlo esattamente. In sostanza viene adito il Giudice per decidere dove deve essere apposto il limite tra due proprietà. Nel giudizio è ammesso ogni mezzo di prova e, in mancanza di altri elementi, l’Istruttore può ricorrere alle mappe catastali.
L’apposizione di termini presuppone invece un confine non contestato e l’assenza di segnali di delimitazione: può essere intentata quando, non essendovi incertezza circa il confine tra due fondi, si vuole apporre tra essi un segno materiale.